Hoş geldiniz: benvenuti nella magica Turchia

E’ un manto di mare quasi senza increspature quello che divide Europa ed Asia e noi siamo nel mezzo, appollaiati sul traghetto che ritorna verso il profilo della città punteggiato di cupole tonde infiammate dal tramonto. Siamo in Turchia e Istanbul è bellissima. E’ un pensiero improvviso dopo la confusione dell’arrivo, la fila alla dogana e il traffico dell’ora di punta che dallo storico quartiere di Sultanamhet ci ha portato al porto, fra venditori di pannocchie e pescatori schierati lungo il ponte a gettare l’amo.

 

 

 

 

 

Istanbul è bellissima, mi ripeto, sorpresa io stessa quando fino a poco prima faticavo a macinare il nostro arrivo. Instabul è bellissima, gridano i bambini, quando una coppia di delfini ci dà il benvenuto in porto, mentre il muezzin intona le parole in arabo della preghiera della sera.

Da quel momento in poi la sensazione di essere incredibilmente sorpresi diventa il regalo più grande del nostro viaggio in Turchia. Perché ci sono viaggi che ti emozionano, altri che ti restituiscono a te stesso, altri ancora che ti mostrano qualcosa che non conosci, altri che sono magici proprio come ti immaginavi, altri che ti scuotono forte rivoluzionando il tuo mondo. E poi ci sono quelli che ti sorprendono, proprio come una musica che non ti aspettavi potesse cantare a quel modo, perché è come se facessi più viaggi in uno solo. E viaggi così non capitano spesso.

1) Istanbul: la città magica
Stupisce per quel suo essere sospesa fra Europa ed Asia, non solo di nome per via delle due rive divise dal Bosforo ma anche di spirito. E’ inaspettatamente moderna e grande, con i suoi milioni di abitanti, i grattacieli e i tram efficienti, puntuali e nuovi di pacca, dove la gente fa la fila con ordine ai tornelli cassicura ol biglietto in mano. Ma è anche magicamente antica per via della sua atmosfera di luogo uscito da una fiaba ottomana ,con la consapevolezza di trovarci di fronte alla mitica Costantinopoli. Basta arrivare e salire su uno dei traghetti pubblici con i quali risalire il Corno d’Oro partendo dal ponte di Galata. Farlo al tramonto assicura il colpo di fulmine

Da lì in poi scoprire la Moschea Blu con i suoi mosaici o Santa Sofia, entrare nel palazzo da Mille e una Notte del Sultano, aggirarsi nel bazar o fare tappa su una delle tante terrazze per riappropriarsi ogni volta dell’incredibile panorama sono un modo per convincerci che non potremmo “vivere in un altro luogo”.

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2) Cappadocia: la terra dei bei cavalli
Pensate alla terra delle Fate e spostatela sulla Luna: benvenuti in Cappadocia. La “terra dei bei cavalli”, questo il significato del suo nome, è uno di quei posti incredibili e unici al mondo.

L’aspetto sorprendente? In un paesaggio mai visto per via delle sue formazioni rocciose prodotte dalle eruzioni vulcaniche migliaia di anni fa, la mano dell’uomo ha aggiunto città sotterranee, chiese rupestri, abitazioni e monasteri nelle rocce. In certi angoli mi ricorda il paesaggio lunare, in altri le abitazioni da presepe di Matera, in altri ancora le prime basiliche cristiane con i loro mosaici scalfiti dal tempo che lasciano senza fiato quando si varca l’ingresso di pietra.

Per riprodurre la magia del luogo ci vorrebbe la mano di un bambino che disegna funghi col cappello su un foglio: per centinaia di anni si è creduto che in queste formazioni rocciose ci abitassero creature fantastiche, fate. E non si fatica a pensarla allo stesso guardandosi attorno.

3) Cappadocia: la terra delle mongolfiere
Siamo ancora lontani dall’alba quando sveglio le bimbe per il nostro volo. Lo sogno fin da bambina, ma chissà come è sempre rimasto in quelle cose che devo ancora fare. In Cappadocia è una delle esperienze da non perdere: salire in alto e contemplare da lì la terra delle Fate. Sarà per via dell’ora, ma tutto avviene come in un sogno. L’attesa che il vento sia quello giusto, il tragitto sul pulmino fino alla cesta, il rumore dei palloni che vengono gonfiati, il balzo all’interno nel nostro angolo. E siamo già in volo. Ho un sorriso stampato che non riesco a togliermi: è come fosse Natale e il mio compleanno insieme.


Alice continua a ripetere che è incredibile, Lea osserva tutto dalle due piccole finestrelle che sono su un lato per chi non arriva ancora all’altezza della cesta. Sfioriamo una coppia che sta facendo colazione e facciamo gli auguri a uno sposo con la sua sposa che stanno per unirsi in matrimonio, sorvoliamo i Camini delle Fate e cerchiamo di contare senza successo le altre decine di mongolfiere che punteggiano il cielo. Sono tante, puntini di colore che accendono il cielo ancor prima che sorga il sole.

Tutto da qui sembra doppiamente bello, la terra assomiglia a tronchi di albero tagliati dove il tempo ha inciso i suoi segni, siamo piccoli e allo stesso tempo giganti mentre guardiamo dall’alto. E l’alba non è mai stata così incredibilmente accesa.

 

4) Cappadocia: aggiungi un posto a tavola
Siamo in cucina, attorno a un tavolo tondo, mentre due donne, una mamma già nonna e la sua figlia acquisita dal candido sorriso, ci mostrano senza parole come avvolgere la pasta con gocce di formaggio, impacchettare dei mini ravioli (una specialità della Cappadocia che si chiama manti) come fossero preziosi regali. E’ incredibile entrare in casa di perfetti sconosciuti e mettere da parte ogni imbarazzo senza che ci sia bisogno di parole.

Dopo aver cucinato, portano i bambini a vedere gli animali: galline, pulcini, conigli e mucche. E poi raccolgono insieme le verdure dell’orto, mentre sgranocchiano dei piccoli cetrioli ancora caldi di sole.

La nostra esperienza di home cooking si conclude con un pranzo sulla terrazza della casa, ombreggiata da tralci di vite, a fianco del minareto del piccolo paesino di Urgup.

 

 

 

 

 

 

 

Grazie a Bedya e alla sua famiglia per la fantastica giornata! (Home Cooked Cappadocia/ info@cappadociavillagehomecooking).

E l’home cooking non è stata l’unica esperienza di quel giorno: aggiungeteci telai e bachi da seta, creta da modellare, caffè turco in cui decifrare il proprio destino, uno spettacolo di danze turche (dove Lea ed io ci siamo cimentate anche nella danza del ventre) e persino un matrimonio (mai visti così tanti come in Turchia:-)).

5) Hamman: in versione family
Sarà che i bambini sguazzerebbero nell’acqua sempre e comunque, sarà che poter spruzzare acqua, insaponarsi come non ci fosse un domani per i più piccoli è un gioco incredibile, noi siamo riusciti nell’impresa di concederci un hamman in famiglia.
Nell’hotel dove abbiamo dormito a Goreme, pare fossimo gli unici interessati, almeno nei giorni che abbiamo dormito lì, e quindi abbiamo trovato l’hamman a nostra completa disposizione. Sì, non è stata un’esperienza di puro relax, ma di quelle da ricordare:-).

6) Turchia: museo romano a cielo aperto
Mano a mano che gli anni passano ho una passione sempre più crescente per tutto ciò che è antico. Estremamente antico. Mi affascina, ma soprattutto mi commuove toccare con lo sguardo o camminare sopra al tempo che passa, soprattutto se si lascia alle spalle luoghi e cose di stupefacente bellezza. E in questo la Turchia è veramente sorprendente in quanto a bellezza, visto il suo essere stata terra romana. Alcuni luoghi sono talmente famosi da essere diventati un’icona, come Efeso.
Ce ne sono però disseminati un po’ ovunque, anche se la maggior parte costellano la costa. A cominciare dal Museo Archeologico di Antalya, la porta d’entrata alla costa Licia o Turchese. Andateci prima di perdervi per le vie antiche di Perge o risalire il teatro di Aspendos. Noi ci siamo aggirati per un paio d’ore ammirando la grazia della danzatrice, ripercorrendo le fatiche di Ercole e scoprendo della sfida fra il dio Apollo e il satiro Marsia. Ed è stato sorprendente come i miti di un tempo abbiano coinvolto i bambini come fossero le favole della buona notte.

 

7) La crociera blu
E’ uno dei miti delle vacanze in Turchia. Impossibile resistere e ammetto di essere stata felice di aver ceduto alla tentazione. La nostra sirena, lunga circa 17 metri, si chiama Istlada e il suo capitano ha un nome che pare uscito da un racconto, Ramazan: inaspettatamente tutta nostra, ci ha portato da Demre fino a Kas. In quel tratto il mare è così calmo da sembrare quasi lago, a noi che siamo abituati al vento e alle onde dell’isola. E’ stato uno dei momenti più simili a una vacanza del nostro viaggio, fatto di sale, piedi scalzi, tuffi subito dopo aver aperto gli occhi, tartarughe da avvistare.

La sensazione più incredibile (e credo quella che più ama chi naviga): dormire sul ponte, sotto le stelle, sentendosi dondolare completamente sobri:-)

8) Il gelato che non ti aspetti
Mi sono svegliata poco dopo l’alba per via del gallo che canta dalla costa vicina, il capitano Ramazan è partito sul piccolo tender per gettare le reti da pesca e io ho già fatto per tre volte il giro del nostro caicco a nuoto. Comincia così una giornata di crociera blu.

Alle 8, ci siamo già spostati e abbiamo attraccato davanti a Simena, un piccolo villaggio di fronte all’isola di Kekova, un’area protetta per via della città sommersa da un terremoto nel secondo secolo d.c. che ancora si può scorgere dalle acque turchesi. Dopo la colazione, abbiamo raggiunto il villaggio per salire al Castello arroccato sulla punta.

La vista da lì ripaga la fatica di arrivarci: un abbraccio turchese di mare e cielo.

E la discesa è dolce per via del gelato fatto in casa che è una specialità dei locali del posto. Non è incredibile?

9) Safari e adrenalina
Metti una tranquilla giornata di vacanza, una delle ultime quattro del nostro viaggio in Turchia. Siamo a Kalkan, un pacifico villaggio di pescatori diventato raffinata località balneare sulla costa Licia.

La nostra casa con vista mare è defilata dal centro, un’oasi di pace direttamente arrivata dal Paradiso.
Si sa, la tranquillità non è proprio nelle mie corde:-)

Ed è così che partiamo su un fuoristrada armati di pistole ad acqua e gavettoni. Il primo tratto del nostro jeep safari è parecchio… bagnato. Obiettivo spruzzare acqua agli occupanti delle jeep vicine, ovviamente senza toccare il conducente. E il passaggio nei villaggi lungo la strada fa accorrere bambini (ma non solo) che partecipano al gioco. Fino ad arrivare al Parco di Saklikent. Qui Aykut, la nostra guida insieme a sua figlia di otto anni, ci accompagnano nella risalita del canyon, giungendo una buona ora dopo alla cascata e bagno finale.

Si pranza seduti a terra con tavoli sospesi sul torrente. E subito dopo è impossibile non farsi un giro di rafting. Il percorso è tranquillo, tanto che anche i bambini, attaccati ciambella a ciambella, possono affrontare la discesa. E si’, il rafting è incredibile, non proprio come un volo in mongolfiera, ma quasi:-). E il finale di giornata? Si consuma sul lato selvaggio della spiaggia più lunga della Turchia, Patara, senza ombrelloni o bar ma solo locali che gettano le reti per la pesca.

10) Hoş geldiniz: benvenuti in Turchia
Qui la gente è sorprendente e nostri bambini hanno fatto da catalizzatore. Prima della partenza, forse per i tanti che mi guardavano un po’ scettici sulla scelta della nostro meta, ho nutrito qualche preoccupazione. Completamente sbagliata.
Ho trovato invece persone che ci hanno accolto con sorrisi e gentilezza facendoci sentire come se fossimo parte di quei luoghi e non solo ospiti. Dalla guida in Cappadocia che ci ha mostrato le foto del nipotino e ha fatto anche da angelo custode al nostro terribile pirata di casa, al tassista di Antalya col quale abbiamo condiviso una giornata intera in giro per siti archeologici dividendo un pranzo a base di kofte (le polpette turche) e Ayran (la bevanda nazionale insiemeal tè), al mitico capitano Ramazan e il suo chef/aiutante a Bedya e sua nuora che con tanta pazienza e sorrisi hanno accolto i nostri bambini nella loro cucina. Sì, la Turchia ti sorprende. Grazie!

Due info utili:
– Volo: abbiamo viaggiato con Turkish Airlines, anche per i voli interni, promossa con lode, dal programma di – intrattenimento ai piccoli gadget ecologici regalati ai bambini
– Tour e caicco: organizzato, voli e sistemazioni a parte, con tanta pazienza e cura da Elena Ventura di www.viaggiointurchia.com, grazie!
– Dove dormire: noi abbiamo scelto sistemazioni in alberghi che avessero a disposizione camere familiari, ma che fossero comuinque affascinanti in quanto a location o struttura. A Istanbul perfetta l’oasi con giardino a Sultanameht di Empress Zoe, dedicato a una delle poche imperatrici bizantine che hanno realmente regnato su Costantinoli, impareggiabile la vista dal nostro giardino pensile all‘Anatolian Suites a Goreme (molto apprezzata la piscina ma soprattutto l’hamman!). Ci siamo innamorati della nostra villa a Kalkan, Cinnabar Villa.

10 anni: il cielo a portata di mani!

Quando ci vogliono due mani per contare gli anni significa che è diventata una cosa seria. O quasi. 10 sembrano simili a nove o undici, ma in realtà non lo sono. Perché ti obbligano a fermarti un momento in più, a ricordare quello che ti sei buttato alle spalle prima di correre e riempire altre due mani. Perché la vita va sempre celebrata, ma in certi momenti in maniera più intensa di altri. Sarà per questo che ho voluto che Alice coi suoi dieci anni potesse toccare il cielo, o quasi, avvolta dalla coperta multicolor dell’autunno. Dopotutto sono convinta che il segreto sia cercare di vivere sempre coi piedi un po’ sospesi da terra, le braccia tese, quasi fossero ali. E ho voluto che il suo regalo di compleanno assomigliasse un po’ alla mia ricetta della felicità.

Ormai è diventata una tradizione di famiglia, tutta da imputare alla sottoscritta. I momenti da ricordare vanno celebrati con viaggi da ricordare, brevi o lunghi le circostanze li permettano.
E Alice, per i suoi dieci anni, mi aveva chiesto di stare in una casa nel bosco, un po’ come avevamo fatto un paio di anni fa. Niente feste particolari, solo del tempo da trascorrere noi cinque.

La ricerca non è stata semplice, anche perché le prime idee si sono scontrate con il tutto esaurito:-). Finché navigando mi sono imbattuta in un rifugio a 2000 metri, dove arrivare lenti con la funivia da Champoluc, immerso nel silenzio, arroccato fra una manciata di rascard, i tipici chalet valdostani dei walser, il popolo delle montagne.
A Cuneaz, 2049 s.l.m.

A fare da cornice la valle d’Ayas, a portata di sguardo le cime del Cervino e il ghiacciaio del Monte Rosa.

Il rifugio Aroula si è rivelato molto simile a una casa, panche all’esterno dove attardarsi per la merenda, giocando a dama, colorando, accarezzando i gatti e contemplando il paesaggio arrossato dal tramonto, un ristorante dalla cucina curata e i prodotti locali (per la  gioia dell’Alice di casa la cena è stata a base di fondue e raclette e di nuovo fondue al cioccolato) e un piccolo appartamento dove dormire, caratterizzato dal legno e ancora legno e piccole finestre dove perdere lo sguardo.

E’ stato incredibile svegliarsi la mattina dopo e sentirsi unici o quasi al mondo: la giornata era di quelle che non ti aspetti in ottobre, la luce calda, il cielo terso così azzurro che le cime e gli alberi e i prati parevano definito a matita, contorni netti e colori accesi.

Il passo lento (e le pause dei due più piccoli:-)) ci ha portato in un paio di ore fino al rifugio Belvedere, dopo aver fatto sosta al laghetto delle rane (pare che ce ne siano tante in estate).

E’ stata una camminata di niente, eppure tutto, o almeno a me è parso: pochissime persone, i sentieri che facevano da cassa di risonanza ai grilli, il Cervino che giocava a nascondino con le nuvole, e la “neve” sul Monte Rosa che spronava Edo e Lea ad andare avanti per “acchiapparla”:-).

Infine la merenda al Cre Fornè, vetrate attorno per sentirsi immersi nel paesaggio, come se fosse tutt’uno con il cielo e le nuvole.

Una di quelle giornate perfette che non sai nemmeno perché sono così perfette, alle quali arrendersi e concedersi respiro dopo respiro. Da questo punto di vista è quasi come se il regalo Alice lo avesse fatto a tutti noi. E poterne avere altri di simili regali varrebbe già una vita, forse due.

Lisboa, obrigada

lisbona 930

Ha un’essenza deliziosamente decadente che sa di mare, cielo azzurro vivo e luce che si tinge di oro rosato quando si fa sera. Ci sono i luoghi da non perdere, come già ricordava poco meno di cento anni fa il letterato nazionale più conosciuto, Fernando Pessoa, in “Lisboa, Quello che il turista deve vedere”. Quelli però vengono dopo. Lisbona è una città bellissima che si afferra immediatamente lasciandoti senza fiato (che sia il panorama da uno dei sette colli o la discesa impervia del mitico tram 28): è immediata, luminosa, nostalgica e avvolgente. Basta passeggiare e guardare. Oppure allungare la mano dal tram 28 (o il 22) e quasi sfiorare con le dita i palazzi illuminati dai colori e dalle trame degli azulejos.

Arriviamo nel mezzo della settimana, lasciandoci dietro l’autunno e sprofondando in un’inaspettata primavera.
Dormiamo in un vecchio edificio, l’androne buio, le camere all’ultimo piano dopo le scale infinite ampie perché un tempo lo spazio non era una questione di cui preoccuparsi, i balconcini stretti e malandati ma dalla vista meravigliosa.
Più in là, scopro a colazione, appollaiata su uno di quei terrazzini che avevo ammirato col naso all’insù, c’è il Tejo, il Tago. Perché a Lisbona si respira salsedine ma la città è mollemente adagiata su un fiume. Il mare è più in là, le acque si confondono, un rapido passaggio di acqua scura e più torbida a un blu di oceano.
Siamo a ridosso del Barrio Alto, un tempo la zona dei nobili oggi quella dei locali e della vita notturna. Basta però lasciarselo alle spalle per inoltrarsi nel Chiado, dove ci fermiamo a bere una bica de “carioca” (caffè leggero) al Brasilera: all’esterno una statua di Pessoa ricorda fra uno scatto e l’altro dei turisti che qui lo scrittore era un affezionato habitué.

Il Chiado prosegue elegante fra piazze e boulevard nella Baixa: da ammirare piazza Rossio e piazza Figuera. Si cammina lenti sulle salite che il tram macina fra curve impossibili ed edifici a sfioro. Mi piace quel rumore di fili e ferro, ritorna puntuale e racconta storie antiche. Adoro le giornate in cui la meta conta poco, e il viaggio tutto.


A Lisbona, in due, posso permettermi di essere disordinata, negligente e spensierata. E il quartiere di Alfama, dove alla sera si confondono le note degli spettacoli di fado, è perfetto per perdersi fra la conta degli azulejus, le facciate malandate, le finestre aperte al vento e i panni affidati alla giornata di sole.

E’ inevitabile sentirsi avvolti dalla “saudade”: a differenza di altri luoghi qui non occorre spiegare la malinconia, la nostalgia, è come dire c’è il sole o la luna. Indulgere nella nostalgia ha il suo pieno diritto proprio come si potrebbe fare con l’allegria o la gioia. E qui la malinconia non ha toni grigi ma è illuminata a giorno.
Attraversiamo Alfama molto lentamente, dopo una sosta alla Cattedrale della città, mentre fotografo e fotografo, fino ad arrivare al Castello di S. Jorge dai cui bastoni dall’impronta islamica si ammira uno dei panorami più belli della città.

Sorge su una collina, come alcuni dei mirador che punteggiano Lisbona, ai quali si arriva dopo la fatica delle salite o semplicemente innalzandosi con un elevador (quello di Santa Justa sorge nel bel mezzo della città, a ridosso di due palazzi, una fila interminabile di persone come immancabile appendice per buona parte della giornata). 

Ecco, a Lisbona potete scegliere un panorama diverso ogni sera per il vostro tramonto, lasciando che lo sguardo spazi sempre più in là. La sera noi saliamo per un aperitivo a Santa Caterina, è un po’ meno affollato rispetto ad altri posti: ci torneremo per un pranzo al ristorante Pharmacia e una visita all’omonimo museo (Lui era interessato al tema:-)).
La sensazione di essere meravigliosamente e pericolosamente sospesi verso l’infinito è forte anche a Belem, una zona discosta dal centro, la punta da dove partivamo i grandi esploratori del passato, fra tutti Vasco da Gama.
Ci si può arrivare anche con un tour in barca: dà la possibilità di ammirare Lisbona dal mare, che si “erge come un’affascinate visione da sogno” (Pessoa, in Lisboa).
La Torre di Belèm più che un avamposto fortificato di avvistamento militare, un tempo punto di ingresso per i marinai e i galeoni, pare un luogo magicamente proteso verso il mare, come la prua di una nave: l’effetto è molto reale, tanto più se si pensa che fino al terremoto di oltre tre secoli fa, la torre era separata dalla terra ferma, ma stava proprio nel mezzo del fiume. L’esterno, caratterizzato dalle preziose cupole moresche e le logge veneziane, è sospeso fra il cielo e il quasi mare sottostante.
Se la Torre di Belèm era il saluto di partenza e arrivo per i marinai, il Monastero di S. Geronimo era il luogo dove imbrigliare le paure e vestirsi di coraggio prima di affrontare l’infinito. Fu costruito proprio per onorare i grandi esploratori e la scoperta della via delle Indie,  sopra tutti Vasco da Gama e Luis de Camoes (ricordato ancor di più per i suoi versi e sonetti che lo fanno il Dante o lo Shakespeare portoghese).
Ci si aggira in silenziosa meraviglia fra le decorazioni del chiostro, dove un tempo si raccoglievano in preghiera prima della partenza per le Indie i navigatori sognatori: la Terra, ciò che ancora non si conosceva sulle mappe costituiva quello che per noi oggi è l’universo.
A Belèm abbiamo scoperto una piccola enoteca (Enoteca de Belèm) dove ho mangiato una delle migliori uova pochè su farinata e polpo croccante degli ultimi anni. Anche qui ovviamente abbiamo assaggiato il bacalhau, credo l’ingrediente con maggiori variazioni nella cucina della città (in centro c’è persino la Casa de Bacalhau dove si mangiano solo polpette di… baccalà).
Lisboa è una città dove la cucina è un piacere in cui indulgere senza troppi pensieri, dove degustare calici di vinho verde, bagnarsi le labbra di ginjinha(il tipico liquore portoghese) o comprare scatolette di pesce in conserva (dallo sgombro al solito bacalhau) impacchettate come fossero souvenir.
E subito dopo, ho obbligato il mio recalcitrante accompagnatore alla sosta alla più famosa pasticceria del Portogallo per assaggiare la famosa Pastel de Nata, creata quasi due secoli fa proprio qui. Ecco, sì, all’esterno c’è una coda continua per l’asporto, però se ci si spinge all’interno, dopo una attesa di pochi minuti ci si può accomodare a un tavolo e assaggiare una Pastel (oltre a chiedere al cameriere di farsi preparare un comodo take away). Che dire? Deliziose, la pastella si sbriciola sotto i denti mentre il ripieno dolce e cremoso viene spolverato da un accenno di cannella.
 Ho adorato attraversare e ammirare Lisbona a piedi (lasciate i tacchi a casa perché qui veramente è impossibile che li possiate utilizzare:-)), però il giro sul Tram 28 è stata un’esperienza da ricordare. A dire il vero lo abbiamo preso solo un paio di volte: di giorno è sempre affollato e accaparrarsi un posto al finestrino è quasi impossibile.
Noi ci siamo saliti di sera, sul tardi, e ci siamo arrampicati attraverso la città. Eravamo in pochi: mi sono ritrovata seduta subito alle spalle del conducente, il finestrino aperto e la mano protesa. In certi momenti il gioco di curve e salite e poi discese pareva una sorta di montagne russe su strada. E il tram sfiora realmente gli edifici, a tratti sembra li accarezzi, mentre la città ti avvolge nella sua melanconia meravigliosamente vitale e luminosa. Obrigada, Lisboa.
Due info utili

Il sito web di Lisbona

http://www.lisbona.info

Il nostro b&b: www.casinhadasflores-lisboa.com

Pharmacia museo e ristorante

Enoteca de Belem: 

Galanolefci, blu e bianco: Paros e Antiparos

Il chicchiericcio delle cicale si confonde con il blu, quello del cielo e quello del mare. L’auto si arrampica fra i campi che portano alla spiaggia. Su un lato della strada l’erba è stata ordinatamente raccolta in file apparentemente disodinate di covoni. Dopo l’ultimo si intravedono i morbidi contorni di una delle tante chiesette di cui è punteggiato il paessaggio. Anche quelle bianche e blu. Come le case. Come la bandiera, Galanolefci (in greco), “blu e bianco”, mare e libertà. E’ l’essenza di un paese, quasi scontata nella sua semplicità, facile da afferrare in poche occhiate. Amo questi colori, specialmente d’estate. E’ la Grecia. E noi siamo ad Antiparos, isola dalle dimensioni che ti stanno in testa nel giro di niente.

Campagnola, quieta e appartata. Un unico centro, Antiparos con il suo Kastro di origine veneziana e la spiaggia cittaina a pochi minuti: al porticciolo le taverne, e la via centrale, un’unica strada lastricata di bianco, pochi vicoli ai lati, sulla quale si affacciano i negozi e i colori accesi delle bouganville. 

Ci siamo arrivati dopo un viaggio faticoso: il passaggio a Myconos, il traghetto sbagliato e la fermata d’obbligo a Naxos, esaurita fortunatamente con una merenda a base di macaron e frappè, l’arrivo a Paros e la traghettata di poco più di cieci minuti per Antiparos.

La nostra sbadataggine è stata salvata dalla gentilezza della gente. Il capitano della nave ci ha trovato la coincidenza, un noleggiatore di auto ha telefonato al nostro “noleggiatore di auto” per farci portare la macchina visto il ritardo. E’ la Grecia.

Qui la dimensione del viaggio, i suoi tempi e i rumori sono quelli dei traghetti. Le file serenamente disordinate per la salita mentre altri discendono, l’attesa all’ombra bianca delle pensile di muratura, il rapido partire (e ce ne siamo accorti perché saliti sul traghetto sbagliato è stato impossibile ridiscendere coi nostri tre bambini e bagagli al seguito) e i contorni della prossima isola persi all’orizzonte.
Non amo i traghetti, ad eccezione che in Grecia. Lì per me lo spostarsi assumo tutto un altro fascino, un po’ come quando mi trovo al tabellone partenze in aereoporto.

Ad Antiparos le spiagge si contano su poco più di una mano, noi dormiamo a Soros Beach, una delle più belle, insieme a Livadia e per noi Apadima.
Alla punta estrema la spiaggia di Aghios Georgios, proprio di fronte a Despotiko, un’isoletta brulla dove le capre pascolano accanto agli scavi archeologici.
Ci andiamo nel corso della settimana: gli scavi, ci racconta un giovane archeologo italiano, sono iniziati da qualche anno, sponsorizzati da privati.
Si scava solo d’estate, per pochi mesi, quando le finanze lo permettono. E ci vorrà tempo prima di portarli a termine.
Despotiko era un luogo di culto: c’erano templi dedicato ad Apollo, ma anche abitazioni e sculture. Oggi ci si aggira intorno scrutando i resti e immaginando.

Da Despotiko la piccola imbarcazione ci porta a una grotta vicina per un bagno, al ritorno ci fermiamo alla taverna di Capitan Pipino: si affaccia a bordo mare, con gli immancabili polipi lasciati a seccare al sole.
Ancora una grotta, questa volta saliamo fra le colline, il panorama è senza fiato. Si entra ad ammirare le stalattiti nelle cave utilizzate un tempo come rifugio dagli abitanti dell’isola.
Scendiamo a mare, ci fermiamo ad Apadima. Riparata dal vento, attrezzata, perfetta coi bambini.
Segnatevi l’indirizzo per pranzo ma soprattutto cena. Noi ci torniamo due volte, la cucina del ristorante Nixon di Beach House e del suo chef (e blogger) Marko Rossi è deliziosa. Greca ovviamente ma con influenze esterne (vedi la ceviche, fantastica).
Per noi la migliore dell’isola insieme a quella di Soros Beach e Tageri.
Scegliamo l’immancabile tavolo bordo mare, particolare non da poco hanno il seggiolone. Lo so per la maggioranza conterebbe nulla, ma noi che da giorni non riusciamo a fare un pasto tranquillo perché Edo fermo se non vede la tavola non ci sta è un plus notevole:-).
Da non perdere ad Antiparos il tramonto. E’ un vero e proprio rito che si può consumare comodamente seduti a bere un aperitivo oppure liberi sulla spiaggia alla quale si arriva con una tranquilla passeggiata di meno di un chilometro dal paese.
Ci rispostiamo a Paros, questa volta per rimanerci una settimana. E’ un’isola dalle dimensioni maggiori, così tanti angoli e spiagge da rendere i giorni troppo pochi: lunghe distese di sabbia, mare tuchese e trasparente, come Kolymbithres (le sue rocce mi hanno ricordato la Maddalena!) e Golden Beach (paradiso per i Windsurf e infatti quando ci andiamo siamo pochi, ma veramente pochi al vento:-)) o Santa Maria (fondali bassi e digradanti dolcemente perfetti per i bambini, a pochi chilometri da Noussa, con la sua Chora fra le più belle delle Cicladi), piccole spiaggette solitarie da ricercare lungo la costa, spettacolare quella est, col suo susseguirsi di spiagge, campi e chiesette a vista sul mare fino al paesino di Piso Livadi, affollato di taverne sul porticciolo e la spiaggia di Longares, ombreggiata dalle tamerici.
Ci siamo spinti fino a sud e poi abbiamo risalito la costa che si allunga di fronte ad Antiparos: qui ci è piaciuta Aliki, con la sua atmosfera rilassata e il paesino fatto di poche taverne, alcune proprio sulla spiaggia.
Noi abbiamo dormito ad Ampelas, a qualche chilometro da Noussa, tratto di costa solitario:   un paio di taverne (entrambe pieds dans l’eau con panorama su Naxos, entrambe con una genuina e semplice cucina greca con pesce fresco), una piccola spiaggia attrezzata e le altre assolutamente libere e quasi deserte. E per chi voglia godersi la vista o il cielo stellato c’è una panchina, come se fosse lì da sempre, quasi abbandonata con noncuranza.
Ho adorato l’assoluto silenzio della zona (se si escludono grilli e cicale e beh i nostri pupi:-)), le gentilezza dello staff e la camera dove abbiamo dormito: una vera “room with a view” con vista che si confondeva dal mare al cielo. Segnatevi Stagones Villas.
Siamo stati a Noussa più volte. Il luogo è da cartolina, con la chiesa che si staglia nella parte alta, le taverne a bordo acqua, l’anima marinaresca della zona dove le reti dei pescatori si confondono con i tavolini bianchi e azzurri che affollano il porticciolo e i vicoli bianchi.
 La consapevolezza chesull’isola la vita è migliore soprattutto se ci rilassa in flip flops e si sorseggia un cocktail a base di gin (vedi foto:-)), mentre il mare è sempre lì. al di là delle imposte socchiuse.
Noi ci siamo sempre stati verso il tardo pomeriggio mai di sera e ci siamo concessi un aperitivo quando i locali erano ancora silenziosi.
Le fa da contrappunto, Parikia, il capoluogo dell’isola, dove arrivano i traghetti e si scambiano i viaggi, testimone un mulino. Qui il  è meno bello ma forse più autentico.
Merita una sosta a cena anche il paesino di Lefkes, uno di quei luoghi lontani dalla pazza folla dove tutto scorre come se il tempo fosse lento e delicato.
Siccome siamo di quelli che soffrono il mal di terra, è stato impossibile non concedersi un’uscita per esplorare la zona attorno a Paros. Siamo finiti fino a Koufonissi. Con Alice c’eravamo stati anni fa, me ne ero innamorata: un’isoletta da girare in bici, poche spiagge ma indimenticabili.
Questa vota l’abbiamo vista dal mare. Le oltre dieci ore in barca sono volate nonostante Edo abbia deciso di concedersi giusto un sonnellino di 45 minuti 45:-): abbiamo fatto tappa a Naxos, nella zona sud, sulla costa impervia le uniche presenza erano le capre e una deliziosa chiesetta sul mare, e poi alle grotte di Koufonissi nella baia di Xilobatis, e infine ad Antiparos.
Al ritorno d’obbligo la cena a Piso Livadi, da dove siamo partiti in una delle taverne del porticciolo.
Lungo la strada che da Ampelas ci portava verso la zona sud abbiamo fatto sosta più volte nella panetteria (ma ci trovate gelati e dolci di ogni tipo) migliore di Paros. Xilofournos. All’esterno abbiamo approfittato delle panchine per goderci un Freddocino noi, una spremuta fresca i bambini, accompagnati da gelato, pasticcini e baklava.
Ovviamente la maledizione traghetto accompagna anche la partenza. Non c’è posto sul primo di ritorno e trascorriamo quindi a Parikia un paio d’ore di più. Niente di male: ci sono i negozietti del centro:-).
A Mykonos trascorriamo una sera. L’abbiamo visitata anni fa, questa volta c’è giusto il tempo dell’immancabile approdo alla Piccola Venezia, Little Venice.
Coi suoi locali, lo scorcio dal lato dei mulini, con le onde che schiaffeggiano i vecchi edifici a picco, illuminati dal tramonto di fine giornata.
E la passeggiata fra i vicoli immacolati del centro, affollati di gente. Ceniamo lontani dalla confusione, in un locale, Amades, composto da qualche tavolino sulla strada e pochi all’interno. A fine strada una chiesetta, più in là la folla, i colori, quelli ricorrenti, bianco e blu.
Ricompongo i giorni, il blu e il bianco.  Assoluti e così incantati. E’ la Grecia. E dopotutto “on the island life is better”.

Uno (tris) pieds dans l’eau

Il piccolo Lui ed io. Un 9 e un 10. Consumati in un fiato, tra una candelina una e una candelina che stava lì per tante. In riva al mare o come dicono i francesi, pieds dans l’eau (che ogni volta benedico chi ha inventato un’espressione tanto ma tanto felice capace di sintetizzare un mondo, soprattutto il mio:-)).

Siamo partiti il 9, di gennaio, destinazione l’isola, via Alghero. E ci siamo immersi in una primavera che sapeva di inverno. 

Lo so, sono già passate settimane, ma il tempo è quello che è e io mi ritrovo con il solito post a perdifiato, dove raccontare e raccontare. 

 

Amo il mare di inverno. Credo di averlo già detto. Sì, lo amo, perché ti regala giornate e scorci inaspettati. E ti concede di godere delle cose da tutta un’altra prospettiva.

Abbiamo camminato tra i sentieri di Caprera. Cielo terso, Corsica quasi a vista e i Barrettini col loro faro bianco.

Il sole tramonta prima dalla finestra grande di casa, la luce accarezza diversa le cose che conosco ormai a memoria, e poi le spiagge abbandonate, lasciate ai gabbiani e a qualche spavaldo viaggiatore.

I bambini, loro, si accorgono poco della differenza, il mare è mare, la spiaggia spiaggia. E basta poco per alzare una bandiera da pirati e impossessarsi del mondo.

Edo ha spento la sua prima candelina ad Alghero sopra una semplice pallina di gelato di frutta. Era felice. E rideva.

Ci siamo persi col vento fra le viuzze spagnoleggianti di Alghero, per poi metterci sulla strada interna che porta quasi dall’altro lato dell’isola grande.

Due ore di viaggio in completo silenzio, o quasi, visto che i i tre dietro dormivano alla grande. E la sottoscritta si è pure fermata lungo la via a fotografare.

Il giorno dopo ho spento la mia candelina su una mini tortina di formaggella. Ecco, c’è questa cosa, che io a La Maddalena adoro le formaggelle, o pardule. Il loro involucro di ricotta, scorza di limone e arancia. Ne mangerei a colazione, pranzo e dopo cena. Col rischio di trasformarmi pure io in una formaggella:-). 

Dato però che l’uno è uno, anche se per noi era un po’ tris, il piccolo Lui è stato festeggiato anche al ritorno a casa. Piccola festa con merenda del pomeriggio tra amici e nonni e cuginetti. A base di gelato (della nostra gelateria del cuore, L’Albero dei gelati:-)), macaron, spiedini di frutta, panini dolci e torta (della sottoscritta che ha molto apprezzato gennaio, dopotutto il terrazzo diventa un bel luogo dove conservare ogni cosa per qualche ora:-)).

Coi panini ho costruito un grande uno in onore del festeggiato (uhm , devo dire apprezzato pure dagli altri, visto che ne è rimasto poco o nulla!).


 

Bene, messi da parte mare e compleanni, ho riaperto la cucina con un dolce che ha il sapore delle vacanze. Almeno per me. Una formaggella torta o quasi, dove ho modificato la parte esterna e conservato l’interno.

Ho trasformato l’esterno in una brisè arricchita di scorza d’arancia candita e farina fioretto, mentre per il ripieno mi sono attenuta alla tradizione.

La ricetta.

Ingredienti

150 g di farina 00

100 g di farina fioretto

50 g di amido di tapioca (o maizena)

90 g di burro freddo

acqua ghiacciata

60 g di zucchero

 

Per il ripieno

350 g di ricotta di pecora

1 tuorlo

scorza di arancia

un pizzico di zafferano

60 g di zucchero

uvetta

 

Procedimento

Mescolate le farine con il burro freddo a pezzetti e lo zucchero, aggiungete acqua ghiacciata quanto basta per impastare. Una volta formatasi una palla, avvolgetela nella pellicola e mettete a risposare in frigorifero per un’oretta.

Lavorate la ricotta a crema con lo zucchero e il turolo d’uovo. Unite lo zafferano e la scorza di arancia. A piacere aggiungete uvetta o gocce di cioccolato.

Riprendete la pasta, stendetela e rivestite uno stampo da crostata, riempite con la crema di ricotta e cuocete in forno a 180° per una trentina di minuti.