Lisboa, obrigada

lisbona 930

Ha un’essenza deliziosamente decadente che sa di mare, cielo azzurro vivo e luce che si tinge di oro rosato quando si fa sera. Ci sono i luoghi da non perdere, come già ricordava poco meno di cento anni fa il letterato nazionale più conosciuto, Fernando Pessoa, in “Lisboa, Quello che il turista deve vedere”. Quelli però vengono dopo. Lisbona è una città bellissima che si afferra immediatamente lasciandoti senza fiato (che sia il panorama da uno dei sette colli o la discesa impervia del mitico tram 28): è immediata, luminosa, nostalgica e avvolgente. Basta passeggiare e guardare. Oppure allungare la mano dal tram 28 (o il 22) e quasi sfiorare con le dita i palazzi illuminati dai colori e dalle trame degli azulejos.

Arriviamo nel mezzo della settimana, lasciandoci dietro l’autunno e sprofondando in un’inaspettata primavera.
Dormiamo in un vecchio edificio, l’androne buio, le camere all’ultimo piano dopo le scale infinite ampie perché un tempo lo spazio non era una questione di cui preoccuparsi, i balconcini stretti e malandati ma dalla vista meravigliosa.
Più in là, scopro a colazione, appollaiata su uno di quei terrazzini che avevo ammirato col naso all’insù, c’è il Tejo, il Tago. Perché a Lisbona si respira salsedine ma la città è mollemente adagiata su un fiume. Il mare è più in là, le acque si confondono, un rapido passaggio di acqua scura e più torbida a un blu di oceano.
Siamo a ridosso del Barrio Alto, un tempo la zona dei nobili oggi quella dei locali e della vita notturna. Basta però lasciarselo alle spalle per inoltrarsi nel Chiado, dove ci fermiamo a bere una bica de “carioca” (caffè leggero) al Brasilera: all’esterno una statua di Pessoa ricorda fra uno scatto e l’altro dei turisti che qui lo scrittore era un affezionato habitué.

Il Chiado prosegue elegante fra piazze e boulevard nella Baixa: da ammirare piazza Rossio e piazza Figuera. Si cammina lenti sulle salite che il tram macina fra curve impossibili ed edifici a sfioro. Mi piace quel rumore di fili e ferro, ritorna puntuale e racconta storie antiche. Adoro le giornate in cui la meta conta poco, e il viaggio tutto.


A Lisbona, in due, posso permettermi di essere disordinata, negligente e spensierata. E il quartiere di Alfama, dove alla sera si confondono le note degli spettacoli di fado, è perfetto per perdersi fra la conta degli azulejus, le facciate malandate, le finestre aperte al vento e i panni affidati alla giornata di sole.

E’ inevitabile sentirsi avvolti dalla “saudade”: a differenza di altri luoghi qui non occorre spiegare la malinconia, la nostalgia, è come dire c’è il sole o la luna. Indulgere nella nostalgia ha il suo pieno diritto proprio come si potrebbe fare con l’allegria o la gioia. E qui la malinconia non ha toni grigi ma è illuminata a giorno.
Attraversiamo Alfama molto lentamente, dopo una sosta alla Cattedrale della città, mentre fotografo e fotografo, fino ad arrivare al Castello di S. Jorge dai cui bastoni dall’impronta islamica si ammira uno dei panorami più belli della città.

Sorge su una collina, come alcuni dei mirador che punteggiano Lisbona, ai quali si arriva dopo la fatica delle salite o semplicemente innalzandosi con un elevador (quello di Santa Justa sorge nel bel mezzo della città, a ridosso di due palazzi, una fila interminabile di persone come immancabile appendice per buona parte della giornata). 

Ecco, a Lisbona potete scegliere un panorama diverso ogni sera per il vostro tramonto, lasciando che lo sguardo spazi sempre più in là. La sera noi saliamo per un aperitivo a Santa Caterina, è un po’ meno affollato rispetto ad altri posti: ci torneremo per un pranzo al ristorante Pharmacia e una visita all’omonimo museo (Lui era interessato al tema:-)).
La sensazione di essere meravigliosamente e pericolosamente sospesi verso l’infinito è forte anche a Belem, una zona discosta dal centro, la punta da dove partivamo i grandi esploratori del passato, fra tutti Vasco da Gama.
Ci si può arrivare anche con un tour in barca: dà la possibilità di ammirare Lisbona dal mare, che si “erge come un’affascinate visione da sogno” (Pessoa, in Lisboa).
La Torre di Belèm più che un avamposto fortificato di avvistamento militare, un tempo punto di ingresso per i marinai e i galeoni, pare un luogo magicamente proteso verso il mare, come la prua di una nave: l’effetto è molto reale, tanto più se si pensa che fino al terremoto di oltre tre secoli fa, la torre era separata dalla terra ferma, ma stava proprio nel mezzo del fiume. L’esterno, caratterizzato dalle preziose cupole moresche e le logge veneziane, è sospeso fra il cielo e il quasi mare sottostante.
Se la Torre di Belèm era il saluto di partenza e arrivo per i marinai, il Monastero di S. Geronimo era il luogo dove imbrigliare le paure e vestirsi di coraggio prima di affrontare l’infinito. Fu costruito proprio per onorare i grandi esploratori e la scoperta della via delle Indie,  sopra tutti Vasco da Gama e Luis de Camoes (ricordato ancor di più per i suoi versi e sonetti che lo fanno il Dante o lo Shakespeare portoghese).
Ci si aggira in silenziosa meraviglia fra le decorazioni del chiostro, dove un tempo si raccoglievano in preghiera prima della partenza per le Indie i navigatori sognatori: la Terra, ciò che ancora non si conosceva sulle mappe costituiva quello che per noi oggi è l’universo.
A Belèm abbiamo scoperto una piccola enoteca (Enoteca de Belèm) dove ho mangiato una delle migliori uova pochè su farinata e polpo croccante degli ultimi anni. Anche qui ovviamente abbiamo assaggiato il bacalhau, credo l’ingrediente con maggiori variazioni nella cucina della città (in centro c’è persino la Casa de Bacalhau dove si mangiano solo polpette di… baccalà).
Lisboa è una città dove la cucina è un piacere in cui indulgere senza troppi pensieri, dove degustare calici di vinho verde, bagnarsi le labbra di ginjinha(il tipico liquore portoghese) o comprare scatolette di pesce in conserva (dallo sgombro al solito bacalhau) impacchettate come fossero souvenir.
E subito dopo, ho obbligato il mio recalcitrante accompagnatore alla sosta alla più famosa pasticceria del Portogallo per assaggiare la famosa Pastel de Nata, creata quasi due secoli fa proprio qui. Ecco, sì, all’esterno c’è una coda continua per l’asporto, però se ci si spinge all’interno, dopo una attesa di pochi minuti ci si può accomodare a un tavolo e assaggiare una Pastel (oltre a chiedere al cameriere di farsi preparare un comodo take away). Che dire? Deliziose, la pastella si sbriciola sotto i denti mentre il ripieno dolce e cremoso viene spolverato da un accenno di cannella.
 Ho adorato attraversare e ammirare Lisbona a piedi (lasciate i tacchi a casa perché qui veramente è impossibile che li possiate utilizzare:-)), però il giro sul Tram 28 è stata un’esperienza da ricordare. A dire il vero lo abbiamo preso solo un paio di volte: di giorno è sempre affollato e accaparrarsi un posto al finestrino è quasi impossibile.
Noi ci siamo saliti di sera, sul tardi, e ci siamo arrampicati attraverso la città. Eravamo in pochi: mi sono ritrovata seduta subito alle spalle del conducente, il finestrino aperto e la mano protesa. In certi momenti il gioco di curve e salite e poi discese pareva una sorta di montagne russe su strada. E il tram sfiora realmente gli edifici, a tratti sembra li accarezzi, mentre la città ti avvolge nella sua melanconia meravigliosamente vitale e luminosa. Obrigada, Lisboa.
Due info utili

Il sito web di Lisbona

http://www.lisbona.info

Il nostro b&b: www.casinhadasflores-lisboa.com

Pharmacia museo e ristorante

Enoteca de Belem: 

Galanolefci, blu e bianco: Paros e Antiparos

Il chicchiericcio delle cicale si confonde con il blu, quello del cielo e quello del mare. L’auto si arrampica fra i campi che portano alla spiaggia. Su un lato della strada l’erba è stata ordinatamente raccolta in file apparentemente disodinate di covoni. Dopo l’ultimo si intravedono i morbidi contorni di una delle tante chiesette di cui è punteggiato il paessaggio. Anche quelle bianche e blu. Come le case. Come la bandiera, Galanolefci (in greco), “blu e bianco”, mare e libertà. E’ l’essenza di un paese, quasi scontata nella sua semplicità, facile da afferrare in poche occhiate. Amo questi colori, specialmente d’estate. E’ la Grecia. E noi siamo ad Antiparos, isola dalle dimensioni che ti stanno in testa nel giro di niente.

Campagnola, quieta e appartata. Un unico centro, Antiparos con il suo Kastro di origine veneziana e la spiaggia cittaina a pochi minuti: al porticciolo le taverne, e la via centrale, un’unica strada lastricata di bianco, pochi vicoli ai lati, sulla quale si affacciano i negozi e i colori accesi delle bouganville. 

Ci siamo arrivati dopo un viaggio faticoso: il passaggio a Myconos, il traghetto sbagliato e la fermata d’obbligo a Naxos, esaurita fortunatamente con una merenda a base di macaron e frappè, l’arrivo a Paros e la traghettata di poco più di cieci minuti per Antiparos.

La nostra sbadataggine è stata salvata dalla gentilezza della gente. Il capitano della nave ci ha trovato la coincidenza, un noleggiatore di auto ha telefonato al nostro “noleggiatore di auto” per farci portare la macchina visto il ritardo. E’ la Grecia.

Qui la dimensione del viaggio, i suoi tempi e i rumori sono quelli dei traghetti. Le file serenamente disordinate per la salita mentre altri discendono, l’attesa all’ombra bianca delle pensile di muratura, il rapido partire (e ce ne siamo accorti perché saliti sul traghetto sbagliato è stato impossibile ridiscendere coi nostri tre bambini e bagagli al seguito) e i contorni della prossima isola persi all’orizzonte.
Non amo i traghetti, ad eccezione che in Grecia. Lì per me lo spostarsi assumo tutto un altro fascino, un po’ come quando mi trovo al tabellone partenze in aereoporto.

Ad Antiparos le spiagge si contano su poco più di una mano, noi dormiamo a Soros Beach, una delle più belle, insieme a Livadia e per noi Apadima.
Alla punta estrema la spiaggia di Aghios Georgios, proprio di fronte a Despotiko, un’isoletta brulla dove le capre pascolano accanto agli scavi archeologici.
Ci andiamo nel corso della settimana: gli scavi, ci racconta un giovane archeologo italiano, sono iniziati da qualche anno, sponsorizzati da privati.
Si scava solo d’estate, per pochi mesi, quando le finanze lo permettono. E ci vorrà tempo prima di portarli a termine.
Despotiko era un luogo di culto: c’erano templi dedicato ad Apollo, ma anche abitazioni e sculture. Oggi ci si aggira intorno scrutando i resti e immaginando.

Da Despotiko la piccola imbarcazione ci porta a una grotta vicina per un bagno, al ritorno ci fermiamo alla taverna di Capitan Pipino: si affaccia a bordo mare, con gli immancabili polipi lasciati a seccare al sole.
Ancora una grotta, questa volta saliamo fra le colline, il panorama è senza fiato. Si entra ad ammirare le stalattiti nelle cave utilizzate un tempo come rifugio dagli abitanti dell’isola.
Scendiamo a mare, ci fermiamo ad Apadima. Riparata dal vento, attrezzata, perfetta coi bambini.
Segnatevi l’indirizzo per pranzo ma soprattutto cena. Noi ci torniamo due volte, la cucina del ristorante Nixon di Beach House e del suo chef (e blogger) Marko Rossi è deliziosa. Greca ovviamente ma con influenze esterne (vedi la ceviche, fantastica).
Per noi la migliore dell’isola insieme a quella di Soros Beach e Tageri.
Scegliamo l’immancabile tavolo bordo mare, particolare non da poco hanno il seggiolone. Lo so per la maggioranza conterebbe nulla, ma noi che da giorni non riusciamo a fare un pasto tranquillo perché Edo fermo se non vede la tavola non ci sta è un plus notevole:-).
Da non perdere ad Antiparos il tramonto. E’ un vero e proprio rito che si può consumare comodamente seduti a bere un aperitivo oppure liberi sulla spiaggia alla quale si arriva con una tranquilla passeggiata di meno di un chilometro dal paese.
Ci rispostiamo a Paros, questa volta per rimanerci una settimana. E’ un’isola dalle dimensioni maggiori, così tanti angoli e spiagge da rendere i giorni troppo pochi: lunghe distese di sabbia, mare tuchese e trasparente, come Kolymbithres (le sue rocce mi hanno ricordato la Maddalena!) e Golden Beach (paradiso per i Windsurf e infatti quando ci andiamo siamo pochi, ma veramente pochi al vento:-)) o Santa Maria (fondali bassi e digradanti dolcemente perfetti per i bambini, a pochi chilometri da Noussa, con la sua Chora fra le più belle delle Cicladi), piccole spiaggette solitarie da ricercare lungo la costa, spettacolare quella est, col suo susseguirsi di spiagge, campi e chiesette a vista sul mare fino al paesino di Piso Livadi, affollato di taverne sul porticciolo e la spiaggia di Longares, ombreggiata dalle tamerici.
Ci siamo spinti fino a sud e poi abbiamo risalito la costa che si allunga di fronte ad Antiparos: qui ci è piaciuta Aliki, con la sua atmosfera rilassata e il paesino fatto di poche taverne, alcune proprio sulla spiaggia.
Noi abbiamo dormito ad Ampelas, a qualche chilometro da Noussa, tratto di costa solitario:   un paio di taverne (entrambe pieds dans l’eau con panorama su Naxos, entrambe con una genuina e semplice cucina greca con pesce fresco), una piccola spiaggia attrezzata e le altre assolutamente libere e quasi deserte. E per chi voglia godersi la vista o il cielo stellato c’è una panchina, come se fosse lì da sempre, quasi abbandonata con noncuranza.
Ho adorato l’assoluto silenzio della zona (se si escludono grilli e cicale e beh i nostri pupi:-)), le gentilezza dello staff e la camera dove abbiamo dormito: una vera “room with a view” con vista che si confondeva dal mare al cielo. Segnatevi Stagones Villas.
Siamo stati a Noussa più volte. Il luogo è da cartolina, con la chiesa che si staglia nella parte alta, le taverne a bordo acqua, l’anima marinaresca della zona dove le reti dei pescatori si confondono con i tavolini bianchi e azzurri che affollano il porticciolo e i vicoli bianchi.
 La consapevolezza chesull’isola la vita è migliore soprattutto se ci rilassa in flip flops e si sorseggia un cocktail a base di gin (vedi foto:-)), mentre il mare è sempre lì. al di là delle imposte socchiuse.
Noi ci siamo sempre stati verso il tardo pomeriggio mai di sera e ci siamo concessi un aperitivo quando i locali erano ancora silenziosi.
Le fa da contrappunto, Parikia, il capoluogo dell’isola, dove arrivano i traghetti e si scambiano i viaggi, testimone un mulino. Qui il  è meno bello ma forse più autentico.
Merita una sosta a cena anche il paesino di Lefkes, uno di quei luoghi lontani dalla pazza folla dove tutto scorre come se il tempo fosse lento e delicato.
Siccome siamo di quelli che soffrono il mal di terra, è stato impossibile non concedersi un’uscita per esplorare la zona attorno a Paros. Siamo finiti fino a Koufonissi. Con Alice c’eravamo stati anni fa, me ne ero innamorata: un’isoletta da girare in bici, poche spiagge ma indimenticabili.
Questa vota l’abbiamo vista dal mare. Le oltre dieci ore in barca sono volate nonostante Edo abbia deciso di concedersi giusto un sonnellino di 45 minuti 45:-): abbiamo fatto tappa a Naxos, nella zona sud, sulla costa impervia le uniche presenza erano le capre e una deliziosa chiesetta sul mare, e poi alle grotte di Koufonissi nella baia di Xilobatis, e infine ad Antiparos.
Al ritorno d’obbligo la cena a Piso Livadi, da dove siamo partiti in una delle taverne del porticciolo.
Lungo la strada che da Ampelas ci portava verso la zona sud abbiamo fatto sosta più volte nella panetteria (ma ci trovate gelati e dolci di ogni tipo) migliore di Paros. Xilofournos. All’esterno abbiamo approfittato delle panchine per goderci un Freddocino noi, una spremuta fresca i bambini, accompagnati da gelato, pasticcini e baklava.
Ovviamente la maledizione traghetto accompagna anche la partenza. Non c’è posto sul primo di ritorno e trascorriamo quindi a Parikia un paio d’ore di più. Niente di male: ci sono i negozietti del centro:-).
A Mykonos trascorriamo una sera. L’abbiamo visitata anni fa, questa volta c’è giusto il tempo dell’immancabile approdo alla Piccola Venezia, Little Venice.
Coi suoi locali, lo scorcio dal lato dei mulini, con le onde che schiaffeggiano i vecchi edifici a picco, illuminati dal tramonto di fine giornata.
E la passeggiata fra i vicoli immacolati del centro, affollati di gente. Ceniamo lontani dalla confusione, in un locale, Amades, composto da qualche tavolino sulla strada e pochi all’interno. A fine strada una chiesetta, più in là la folla, i colori, quelli ricorrenti, bianco e blu.
Ricompongo i giorni, il blu e il bianco.  Assoluti e così incantati. E’ la Grecia. E dopotutto “on the island life is better”.

Uno (tris) pieds dans l’eau

Il piccolo Lui ed io. Un 9 e un 10. Consumati in un fiato, tra una candelina una e una candelina che stava lì per tante. In riva al mare o come dicono i francesi, pieds dans l’eau (che ogni volta benedico chi ha inventato un’espressione tanto ma tanto felice capace di sintetizzare un mondo, soprattutto il mio:-)).

Siamo partiti il 9, di gennaio, destinazione l’isola, via Alghero. E ci siamo immersi in una primavera che sapeva di inverno. 

Lo so, sono già passate settimane, ma il tempo è quello che è e io mi ritrovo con il solito post a perdifiato, dove raccontare e raccontare. 

 

Amo il mare di inverno. Credo di averlo già detto. Sì, lo amo, perché ti regala giornate e scorci inaspettati. E ti concede di godere delle cose da tutta un’altra prospettiva.

Abbiamo camminato tra i sentieri di Caprera. Cielo terso, Corsica quasi a vista e i Barrettini col loro faro bianco.

Il sole tramonta prima dalla finestra grande di casa, la luce accarezza diversa le cose che conosco ormai a memoria, e poi le spiagge abbandonate, lasciate ai gabbiani e a qualche spavaldo viaggiatore.

I bambini, loro, si accorgono poco della differenza, il mare è mare, la spiaggia spiaggia. E basta poco per alzare una bandiera da pirati e impossessarsi del mondo.

Edo ha spento la sua prima candelina ad Alghero sopra una semplice pallina di gelato di frutta. Era felice. E rideva.

Ci siamo persi col vento fra le viuzze spagnoleggianti di Alghero, per poi metterci sulla strada interna che porta quasi dall’altro lato dell’isola grande.

Due ore di viaggio in completo silenzio, o quasi, visto che i i tre dietro dormivano alla grande. E la sottoscritta si è pure fermata lungo la via a fotografare.

Il giorno dopo ho spento la mia candelina su una mini tortina di formaggella. Ecco, c’è questa cosa, che io a La Maddalena adoro le formaggelle, o pardule. Il loro involucro di ricotta, scorza di limone e arancia. Ne mangerei a colazione, pranzo e dopo cena. Col rischio di trasformarmi pure io in una formaggella:-). 

Dato però che l’uno è uno, anche se per noi era un po’ tris, il piccolo Lui è stato festeggiato anche al ritorno a casa. Piccola festa con merenda del pomeriggio tra amici e nonni e cuginetti. A base di gelato (della nostra gelateria del cuore, L’Albero dei gelati:-)), macaron, spiedini di frutta, panini dolci e torta (della sottoscritta che ha molto apprezzato gennaio, dopotutto il terrazzo diventa un bel luogo dove conservare ogni cosa per qualche ora:-)).

Coi panini ho costruito un grande uno in onore del festeggiato (uhm , devo dire apprezzato pure dagli altri, visto che ne è rimasto poco o nulla!).


 

Bene, messi da parte mare e compleanni, ho riaperto la cucina con un dolce che ha il sapore delle vacanze. Almeno per me. Una formaggella torta o quasi, dove ho modificato la parte esterna e conservato l’interno.

Ho trasformato l’esterno in una brisè arricchita di scorza d’arancia candita e farina fioretto, mentre per il ripieno mi sono attenuta alla tradizione.

La ricetta.

Ingredienti

150 g di farina 00

100 g di farina fioretto

50 g di amido di tapioca (o maizena)

90 g di burro freddo

acqua ghiacciata

60 g di zucchero

 

Per il ripieno

350 g di ricotta di pecora

1 tuorlo

scorza di arancia

un pizzico di zafferano

60 g di zucchero

uvetta

 

Procedimento

Mescolate le farine con il burro freddo a pezzetti e lo zucchero, aggiungete acqua ghiacciata quanto basta per impastare. Una volta formatasi una palla, avvolgetela nella pellicola e mettete a risposare in frigorifero per un’oretta.

Lavorate la ricotta a crema con lo zucchero e il turolo d’uovo. Unite lo zafferano e la scorza di arancia. A piacere aggiungete uvetta o gocce di cioccolato.

Riprendete la pasta, stendetela e rivestite uno stampo da crostata, riempite con la crema di ricotta e cuocete in forno a 180° per una trentina di minuti.

Barcellona. Perché già la amo.

E’ una città bellissima. Veramente. Che diventa magnifica, abbagliante quando c’è il sole. Cielo blu, senza una nuvola. Una città che ti costringe a voltarti in su per non perdere nulla. E a goderti, a passo lento, i quartieri, i vicoli, i giri di tapas e sangria.

Una città che alza la testa orgogliosa a ogni balcone. Fiera ed energica.

Una città che ti mette voglia di camminare.
Siamo arrivati a Barcellona da una settimana e già mi pare di essere lontano, completamente immersa in un mondo nuovo, eccitante. Cose da guardare, toccare, annusare. Nuovi ritmi, sapori e impegni. Sono in movimento e sono felice. Ne avevo bisogno. 

Sono passati setti giorni e ci stiamo orientando. Le prime visite del fine settimane (sotto la pioggia), il primo giorno di asilo di Alice (sotto la pioggia, sigh) e il primo raggio di sole, tre giorni fa. 

Ho preso le misure con questa casa di passaggio: una cucina ridotta all’essenziale ( dle tipo che se vi dico due pentole due, sono proprio due, lol!), un retro con lavatrice sul balcone (che a guardare dal quinto piano in giù mi viene male, ogni volta), un terrazzino inondato di luce (direi la parte migliore!), dal quale contemplare i tetti e il Tibidado. 

A voi, il retro:-)… notate la rete in basso? Beh se perdo un paio di calzini stesi so dove andare a cercarli.

 

Il lato bello, bello. E i miei acquisti di stamattina:-)

Il parquet interno scricchiola poco aderente al pavimento, ma non alla maniera londinese, tanto che ieri il vecchietto di sotto ci ha suonato perché Alice e Lea disturbavano la sua siesta (alle 5 del pomeriggio…).

Adoro il nostro quartiere. Siamo a Gracia, una zona tranquilla e residenziale, anima di tutti i focolai rivoluzionari catalani. Se Barcellona è Catalogna prima di essere Spagna, Gracia è Gracia prima di essere Barcellona. 

Vicina alle manifestazioni di una città che il primo maggio ha fatto sentire la sua voce. 

Ci si perde fra le sue piazze, i negozietti di ogni genere e locali. Basta fare due passi per passara dai tipici ristoranti catalani e spagnoli a specialità da tutto il mondo: indiane, cinesi, giapponesi, thai, fusion, italiane, argentine…

Aggiungeteci il Mercat de la Llibertat proprio a due passi e capirete perché sono già innamorata.

Mi mancava questa energia. Barcellona è una città europea, in crisi come tante, ma non ha perso la sua vitalità. Il suo cosmopolitismo. La sua fierazza. Facile sentirsi affascinati, soprattutto arrivando da un paese dove tanto di questo pare essere svanito negli ultimi mesi, anni…

Al mattino usciamo presto. Di solito io, Alice e Lea. Prendiamo la metro, una linea, cambio, la seconda. Le leoncina nel marsupio, perché purtroppo anche qui, ad eccezione di pochi ascensori, per lo più in metro mamme e passeggini hanno vita dura. Però mi piace. 

Riconoscere dopo qualche giorno i percorsi, il via vai di facce e lingue da ogni parte del mondo, i musicisti che si alternano nelle stesse postazioni.

L’asilo di Alice è il tipico asilo per stranieri: un miscuglio di nazionalità che si incontrano grazie all’inglese o al tedesco. Il primo impatto è stato caotico, informale. E ovviamente così poco italiano. Escono, tutti i giorni o quasi. Oggi, sono stati al mare, in spiaggia. Una camminata di bimbi in fila a due, senza troppi problemi. Le mani sporche di sabbia e i capelli che sanno di salsedine.

Io lavoro, mentre Alice è all’asilo e Lea gironzola col passeggino con la nostra super fatina italiana (alias baby sitter, grazie ad Alessandra che me l’ha fatta conoscere:-)). Appunti sparsi, idee del prossimo libro che devono diventare in queste settimane i sei capitoli che lo formeranno. 

Però abbiamo anche fatto alla moda dei Barcellonesi. Siamo usciti tra sabato e domenica e le sere in cui Lui non torna dopo le dieci…

Perdonatemi ma di foto ne ho scattate poche. Non è semplice con le due pupe al seguito. E soprattutto se ti porti la Canon, ti fai bastare l’obiettivo basic…

Per la gioia di Alice (e lavoro della sottoscritta) siamo stati all’Acquario, al museo Marittimo e al Museo delle Cere.

Il meglio però è stato domenica. Siamo saliti con la funicolare a Montjuic, la montagna degli ebrei, punto panoramico sull’intera città fino alla zona del porto. Da lì siamo scesi passando tra i viali dei giardini, sino alla Fondazione Mirò.

E allo stadio olimpico, dove la sottoscritta pensava giocasse il Barça, una vera e propria fede più che una squadra di calcio. Grazie a Luca di aver corretto la mia ignoranza, e pensare che Lui mi ha detto ora che mentre eravamo lì mi stavo giusto dicendo che lo stadio non è utilizzato (e appunto non ci sono nemmeno le porte:-))). Chiedo venia!

Da qui ci siamo spostati verso il centro, arrivando al Barrio Gotico. Che al momento, dopo Gracia, è il mio posto del cuore. Vicoli e vicoli, stretti, dove la lune gioca a sprazzi tra le finestre e i balconi.

Trasformando ogni cosa, rendendo speciale ogni angolo. Persino i più banali.

 

 

Balconi e finestre, panni candidi e bandiere arancio acceso.

 e stella su fondo blu.

 

E la mia cucina? Per ora sta tutta nel prossimo libro (in gran parte già fotografato:-)) e negli assaggi on the road. Da segnalare le mie tapas, per ora del cuore, a "La Pepita" e la fideua (paella a base di cortissimi spaghettini) a L’Arrosseria Xativa. 

 

Piesse: volete partecipare anche voi al prossimo libro de Il Cucchiaino? Forza papà o mamme per i papà spedite le vostre ricette. Basta essere semplici, non per forza chef, ma proporre qualcosa che amate fare coi vostri bambini. 

Vi aspetto!!!

Primavera d’autunno, Torggelen e mele

Ci sono i momenti, quelli belli, che ti rimangono fra i pensieri come bolle di sapone fra le dita. Cerchi di afferrarli, trattenerli o portarli alla luce del giorno quando c’è qualche nuvola. A volte volano via, proprio come le bolle, a volte scoppiano dietro alle giornate grige, faticose. A volte sono chiari, profumati, frizzanti come quei giorni di primavera in pieno autunno.

Sussurro spesso ad Alice di conservare le giornate speciali. Quelle in riva al mare o dei prati in montagna, quelle in cui siamo vicine e giochiamo a rincorrere le onde. 

Oggi è primavera in autunno, qui da noi. E ho ripensato a due giorni speciali, qualche settimana fa. Perché sono stanca, parecchio assonata, con tanto lavoro e poca lucidità, in compagnia di una pupa ammalata e una settemesenne con tanta voglia di strisciare per tutta la casa. 

Ho ripensato ai "torggelen", a Chiusa e alle bimbe in quei due giorni. Aria di primavera in autunno.

E ho deciso che dovevo trovare dle tempo per accarezzare un ricordo recente e ritornare sorridente:-). 

Lo so, ormai i torggelen sono passati (per chi non lo sapesse è quella splendida abitudine altoatesina di andare per masi, bere il mosto e mangiare castagne nelle prime giornate d’autunno), ma il racconto introduce le ricette dei prossimi giorni. A base di mele, ancora mele, e sempre mele. Perchè durante quei giorni ne ho comprate parecchie andando a zonzo.

Oggi solo foto e qualche parola, per portare anche voi nella nostra giornata di primavera che sa di foglie croccanti e multicolor, mele rosso biancaneve e castagne calde. 

Con i verdi dei prati che sono ancora verdi mentre il foliage attorno canta di gialli, arancioni e ambra rossa.

A Chiusa, è bastato mescolarsi alla folla, nella festa, tra i vicoli circondati dalle facciate medioevali, per sentirsi lontani.

Ai tavoli, per le strade, abbiamo mangiato pane dolce, bretzel salati, castagne profumate di fuoco, nei bicchieri mosto dolce e birra dei piccoli (uhm, succo di mele). 

E se si è stanchi della moltitudine, è sufficiente andare, zaino, scarpe comode, una storia da raccontare alla pupa accanto, i lamponi scuri d’autunno da afferrare, un "Gruss Gott" da scambiare con l’uno o il due che si incontrano sul sentiero.

Respirare a boccate la solitudine, diventare euforici per il silenzio. 

Per le fino su Chiusa e dintorni vi rimando qui, per le ricette a base di mele invece stay tuned:-)

Tornare…

430 … e avere ancora negli occhi il blu, quello del mare, quello dell’orizzonte e del cielo. Dove vivono sospesi i gabbiani. E ci si sente perennemente in preda del mal di terra. Tornare e avere l’estate dentro, come fosse un secondo abito dal quale non vuoi separarti. Faticare coi grigi di oggi, con i semafori infiniti, quando per quasi due mesi ne ho contati giusto due (di cui uno perennemente lampeggiante). Avere l’eco dell’andirivieni dei traghetti, che a volte si incontrano a volte no. Vai a scommettere quando. E il gioco delle spiagge o delle uscite comandato dal vento. Tornare come se non si fosse tornati. 

Ormai so del tempo che vola e scivola, poco stupore quindi per un’estate che si è consumata veloce nella sua lentezza infinita. Le piccole abitudini: la sveglia presto, la corsa in bicicletta per accompagnare Alice al corso di nuoto in mare, l’odore intenso della salsedine al ritorno, appena imboccavo la discesa, il mercato del mercoledì, l’attesa dei primi fichi e la scelta del melone bianco.  La connessione sulla quale maledire durante le mattinate lavorative, il porticciolo dove ammirare le barche sul finire della giornata coi profili delle case che hanno un sapore di altri tempi,

430

lo sguardo perso verso il panorama, a valutare tramonti all’ora dell’aperitivo casalingo,

o invidiare gli alberi, quelli sul mare.

il bagno della pausa pranzo, le prime sgambettate in acqua di Lea, e il mare che scorgi improvviso fra gli alberi e le rocce. Il giro al parco, a far finta di essere pirati nei giorni brutti (uhm, forse due:-)).

 

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La conta dei fari, fino a quello più lontano, degli isolotti Barrettini. 

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E ti può capitare di scorgere i delfini fra le onde o girare il collo come fanno certi uccelli, persi nell’orizzonte o attaccati al loro scoglio.

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Non è stato viaggio, non è stata vacanza, almeno per la maggior parte del tempo, ma una sorta di breve trasferimento altrove, quando cominci a vivere e riconoscere e organizzare.

Però quello lo lasciamo da parte perché tornare, almeno oggi, è raccontare i momenti, quelli più belli e speciali dell’isola,  La Maddalena. Fatta di luce, che filtra nel blu cangiante del mare, nel verde dei pini di Caprera, e di vento, che urla o sussurra nel canto dei gabbiani, alle prime ore del mattino.

Per me è impossibile stare qui senza desiderare di andare. O meglio di non rimanere a terra, senza perdere di vista la partenza. E i luoghi dove navigare sono tanti e tali che ammalarsi di mal di terra qui è quasi banale.

Ecco Bonifacio, le sue falesie, il bianco accecante nei giorni dell’estate. E l’impressione di avere fra le dita tutto quello di cui hai bisogno. Per un momento.

 

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E poi i tuffi, i primi di Alice senza se e senza ma, contati a voce alta, con le amicizie nate per caso. Tipo che abbiamo lo stesso costume e amiamo lo stesso rosa per l’innaffiatoio ("Ciao Riiiitaaa!!":-)).

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Per oggi l’estate è ancora qui, mentre sogno l’isola, quella che mi somiglia.