Mercati, vini e gourmet. Sudafrica III.

Pensa a un mercato un po’ radical/etno chic, cornice vecchio vittoriana di un biscottificio in disuso, un po’ yuppie ma anche tanto bio e posizionalo all’estremo sud del continente africano. Bene avrai la sensazione strana di essere dalle parti di Londra (vi ricordate il Borough Market?) piuttosto che nella terra dei leoni e della terra rossa.  Aggiungici la possibilità, in poco più di mezz’ora di auto, di fermarti per un bicchiere di Merlot in una cantina dall’architettura franco-ugonotta e ti parrà di non aver mai lasciato l’Europa. 

Devo dire che è stata in assoluto la prima volta che mi è capitato qualcosa del genere all’interno dei confini africani. Bello o brutto? Non saprei, certo della serie "questo non me l’aspettavo".

Naturale che  fra i tre episodi sudafricani questo parla poco di un continente, più dello sforzo di trapiantare la vecchia Europa molto, molto lontano. O forse racconta del Continente visto che la sua storia è anche questa, soprattutto in Sudafrica dove la presenza "bianca" è ancora fortissima, non in termini di numeri quanto di influenza. 

Sono nate così le cittadine di Stellenbosh e Franschhoek e tutta la zona delle Winelands: i francesi, ugonotti, hanno approfittato di condizioni climatiche e territoriali favorevoli per dare vita a tutta una serie di coltivazioni di uva che oggi producono degli ottimi vini. E la vista della scritta Merlot, a migliaia di chilometri da casa nostra, beh è veramente strana:-).

Andiamo con ordine. Durante i giorni trascorsi a Cape Town (già lunghissimamente documentati) non poteva mancare per la sottoscritta il passaggio all’Old Biscuit Mill Market, nel quartiere emergente di Woodstock, un esempio di vecchio edificio industriale rilanciato da due imprenditori locali grazie alla creazione di questo mercato. 
E’ una tappa obbligata (e oltremodo affollata) per molti abitanti della Mother City il sabato mattina: a metà strada fra un mercato vintage e di design e uno invece di prodotti biologici e gourmet da comprare o sperimentare in loco.

Si trovano formaggi locali (a esempio Goat Cheese o il Cheddar nostrano), baguette e falafel, hamburger e ostriche, biltong e cupcake, smoothies e paella, sushi e olive greche e persino prosciutto di parma (ma prodotto rigorosamente locale). Poi vino, magari abbinato alla pizza.

I lunghi tavoloni al centro dei due padiglioni sono strapieni di gente, bottiglie e chiacchiere, c’è un allegro mix di generazioni, meno di colori. 

Ovviamente noi abbiamo sperimentato in loco (uhm, soprattutto la pupa!), oltre a conquistare due o tre cestini di fragole, mirtilli e gooseberries (che non sono altro che alchechengi ma senza foglie) e formaggi per il pic-nic del giorno dopo.

E’ soprattutto però dietro le varie postazioni che si leggono i volti più diversi, compreso qualcuno che indossa cappello e perle.

 

Mi ha ricordato il Borough Market, anche se là avevo trovato il posto un’immagine concentrata di Londra, qui invece c’è molta distanza fra quello che trovi anche solo appena fuori, nelle strade di Woodstock e ciò che vedi tra le bancarelle. Certo è un tentativo fantastico di promozione del territorio con prodotti bio e soprattutto locali.

Ho vissuto la sua vivace atmosfera come un mercato "europeo" più che sudafricano o africano, ovvio che proprio questa caratteristica lo rende perfetto da girare come turisti, molto più di altri mercati "africani" visti in passato, dove ho osato poche volte mangiare senza troppe attenzioni ma che mi avevano conquistato come viaggiatrice:-).

Dall’Old Biscuit Mill Market alle terre del vino il passaggio è stato veramente breve. La netta sensazione era di essersi persi fra le campagne francesi, con edifici candidi dai profili caratteristici, fermarsi nelle cantine è fantastico perché le degustazioni si tengono sotto pergolati, con giardini, vigneti e colline attorno, musicisti e opere d’arte in certi casi. Un’attenzione tutta francese al contesto con vini discreti (puntualizzazione di Mr B.).

Sono veramente luoghi perfetti per fermarsi e degustare i vini con tanto di pupo, considerato che di solito ci sono giardini, fontana o prato dove scorazzare liberamente.

Chi vuol vivere fino in fondo l’atmosfera bucolica può chiedere di farsi preparare un bel cesto da pic-nic con del bianco ben ghiacciato.

 

Io devo dire che al terzo giro di cantina ho iniziato a sentirmi perfettamente integrata nel contesto:-).

Franschhoek è tra le fermate più belle, una manciata di case, tutte bianche, per lo più cottage dalle imposte in legno e dal tetto scuro, giardini da campagna anglo-francese, decine di ristoranti "gourmet" fra i quali scegliere, piccole gallerie d’arte e negozi dal sapore provenzale.

 

Due giorni qui, ti danno l’impressione di essere temporaneamente volato in qualche regione vinicola francese, con tanto di bollicine, nel bel mezzo di un viaggio nel continente africano. Di certo un modo per capire quanto il Sudafrica sia proprio quell’arcobaleno e mosaico di cui in tanti hanno detto.

 

Amo il vino, mi piacciono i mercati, vorrei…

Old Biscuit Mill Market

Franschhoek

Il cottage dove abbiamo dormito (di un’italiana): atmosfera idilliaca in una vecchia missione dell’800

Cantine da non perdere: La Grande Provence, Moreson (un punto in più per giardino e fontana da parte di Alice!), La Motte e tante altre…

Vellutata inverno-primavera

E ‘stata una strana settimana. Di quelle dove ti senti sospesa, a mezz’aria, e ti pare di concludere poco, poco. Il lavoro è sembrato quasi rallentato e se non fosse per il sabato lavorativo (sigh) ho la netta sensazione di aver avuto un sacco, sacchissimo di tempo per come dico io, "pirlonare". Ci sono stati i panini, i giri al parco con la pupa dopo l’asilo (ma quanta gente c’è???) e persino, oggi, la decisione "vado a prendere informazioni perché devo, ma proprio devo, fare un qualche tipo di sport".

Io credo sia tutta colpa della primavera e del sole di questa settimana, è facile sentirsi un pochino ubriachi:-). Ieri ho trovato pure un’oretta per farmi un giro per il mercato e curiosare tra le verdure di stagione.

Alcune sono finite in questa zuppetta ben passata per la sera.

Sulle bancarelle del "verdurario" impazzavano due stagioni: carciofi e fragole, puntarelle e taccole, e poi ancora cavoli, broccoli e pere. E tu lì a decidere se sei ancora dell’umore broccolesco oppure vuoi già emigrare verso le puntarelle (non vi capita lo stesso fra cappotto e trench leggero, leggero). Io sono passata alle puntarelle. Che tra parentesi a-d-o-r-o.  
Lo so, non sono molto da pupo, ma ieri sera le ho preparate fresche, fresche, perché l’idea era da martedì che mi passava in testa. Ecco martedì ho mangiato le prime puntarelle, con amici, in un ristorante giapponese (ve lo consiglio se passate  Milano, beh è più una sushiteca) condite con una salsina agrodolce alla soia e ho pensato che avevo una maledettissima voglia di farle a casa, alla romana.

Detto fatto. Solo che quando prepari le puntarelle, le pulisci, le lasci a ghiacciarsi quell’ora in acqua fredda, strafredda, e poi le fai macerare nella salsina all’acciuga ti avanzano due cose: il tempo e l’esterno delle puntarelle, ossia la cicoria vera e propria. Ed è un peccato buttarla.

Bene è nata la vellutata inverno-primavera perché dentro ci sono finite oltre alle foglie di cicoria, mezza pera e due zucchine novelle.

Naturalmente questa è una ricetta formato pupo, e pure di quelli piccoli. Alice da parte sua ha assaggiato pure due puntarelle, ma credo più per il divertimento di afferrare le estremità ricciolute, dopo debito bagno ghiacciato, che per il sapore (direi poco da pupo:-)).

 

Ho aggiunto a passato pronto una manciata di anelli al miglio, giusto per dare una nota croccante, fare la caccia di Pollicino e disegnare nel mezzo, occhi e sorriso di mozzarella

 

Ingredienti (per tre)

foglie di cicoria (nel caso non foste adepti delle puntarelle, potete sostituire con foglie di spinaci)

1/2 pera

2-3 zucchine

olio EVO

anelli di miglio o altri cereali

1 mozzarella fiordilatte

(eventuale sale, pepe per mamma&papà)
qualche fettina di cipolla
parmigiano reggiano

 

Procedimento

Lavate le verdure. Stufate la cipolla con due cucchiaini di olio, aggiungete le zucchine e la pera tagliate a pezzi, le foglie di cicoria. Coprite con un litro e mezzo circa di acqua. Lasciate cuocere per 20-25 minuti. Passate tutto con un cucchiaino di olio e parmigiano, servite la porzione del bambino con qualche anellino di miglio (o un cracker senza sale sbriciolato se vi viene più comodo come disponibilità) e qualche pezzettino piccolo di mozzarella. Aggiungete invece per mamma&papà sale e pepe (ed eventuale scorzetta di zenzero se vi piace).

E’ primavera. Svegliatevi … panini!

E’ facile innamorarsi della primavera. C’è una sorta di ebbrezza come se veramente tutto fosse pronto a vivere, rinascere, come se tutta questa vita potesse sconfiggere con un soffio la morte accanto. E’ lo stesso che provi guardando un bambino che ti corre intorno, tanto più se è il tuo: non ti senti più come quel pesce nella boccia, confinato, limitato, ma con un piede nel futuro, anche quello che non conoscerai.

Credo sia per questo che per me la primavera è una festa, uno di quei giorni dell’anno che mi appunto nella mente. E anche io, stamattina, avrei gridato come quella bimba che ho sentito fino in casa: "E’ primavera, oggi!". Per festeggiare ho preso i vasi e ci ho fatto il pane.

Dopotutto marzo è il mese dei pazzerelli e io un po’ pazza lo sono sempre stata.

La genesi. Ossia come è nata l’idea.

Bene, di sana pianta per la pupa durante uno dei lunghi tragitti sudafricani alla richiesta "Mamma, mi racconti una storia". (e io ho il vizio stramaledetto di inventare tutto al momento e poi di inguaiarmi in giri stranissimi:-))

C’era un vaso di terracotta che avrebbe tanto voluto essere colorato, la Primavera lo accontentò. Soffiò sui fiori, sparse i semi e il vaso si colorò di violetto, rosso e giallo. E da quel dì fu felice perché anche se arrivava l’inverno lui sapeva che sarebbe rinato, di nuovo il 21 a primavera.

Dal vaso colorato al vaso paninaro il passo è stato brevissimo ( e mi sono appassionata al genere, quindi preparatevi:-))

 

I vasi di terracotta. Ovvero se un Cucchiaino va al vivaio.

"Buongiorno, cerco dei vasi, di varie misure, preferibilmente mini". Cucchiaino speranzoso.

"Guardi là ne abbiamo di due tipi, perfetti per le semine di primavera".

"Uhm, beh io dovrei infornarli. Sa giusto un po’ di impasto di pane, 200° non ventilato…". Cucchiaino imbarazzato.

"Deve essere il periodo, fa brutti scherzi…". Vivaista senza pietà.

"Lei non sa quindi se posso osare i 200°?". Cucchiaino ostinato.

"Il prossimo, prego". Vivaista liquidatore.

 

Il consiglio.  Segna il posto a tavola.

Questa l’ho pensata una volta che ho ammirato i vasetti panettosi: perché non prepararne porzioni monodose con tanto di nome per i prossimi pic-nic o cene in terrazza o aperitivi o feste o quello che volete voi?

Per la pupa e…

… Mr B e la sottoscritta.

 

E oggi 21 di primavera mi pare giusto festeggiare, benché di primavera qui attorno pare esserne rimasta ben poca. Eppure la magia di questi panini, il profumo per casa, la gioia di sbocconcellare partendo dalla cima mi hanno trasmesso una gioia che ha il sapore delle cose lontane dell’infanzia. 

Buona primavera a tutti!

 

piesse: nel mio procedimento ho preparato il lievitino alla sera, giusto per non dovermi preoccupare di seguire più lievitazioni il giorno dopo. Naturalmente potete anche decidere di cominciare dal mattino e arrivare all’"infornamento" a metà pomeriggio.

piesse 2.: ho abbinato alla farina manitoba farina al kamut, ecco potete ovviamente sostituire con farina 00.

Formato? Dai 9 ma anche prima per piccoli morsi di assaggio!

 

Ingredienti

300 gr di farina manitoba

150 gr di farina di kamut

12 gr di lievito di birra fresco (circa mezzo panetto)

1 cucchiaino di zucchero

sale

circa 150-200 ml di acqua (potete in parte sostituirla con un paio di cucchiai di latte, ricordate solo dopo i 12 mesi)

1 cucchiaio di parmigiano e 1 cucchiaino di pecorino

punte di asparagi

fave scottate in acqua
olio

 

Procedimento

Sciogliete circa 7 gr di lievito di birra in una tazzina di acqua tiepida con un cucchiaino di zucchero, lasciate riposare per qualche minuto, quindi mescolate insieme a 100 gr di farina manitoba e un paio di cucchiai di acqua tiepida. Mettete a lievitare per diverse ore, anche l’intera notte (in luogo fresco). Riprendete la palla lievitata, sciogliete il resto del lievito in acqua tiepida con mezzo cucchiaino di zucchero, fate fermentare per qualche minuto, quindi impastate con il resto della farina. Aggiungete dell’acqua tiepida (dove avrete fatto sciogliere un cucchiaino di sale) e il parmigiano, fate impastare nella planetaria fino a quando l’impasto si compatta intorno al gancio. Rimettete a lievitare in luogo caldo (ad esempio il forno a 35°) per due ore. 

Infarinate i vasetti di terracotta, prendete l’impasto lievitato e ricavate delle piccole porzioni tonde. Posizionate l’impasto nei vasi: cercate di appoggiare la palla occupando metà vaso (in lievitazione e cottura occuperà tutto lo spazio a disposizione). Nella parte alta mettete delle fave, al centro un gambo con la punta di asparago (che poi coprirete con carta domopack, in maniera che non bruci). Spennellate con poco olio d’oliva mescolate ad un cucchiaino di latte e lasciate lievitare al calduccio per un’altra oretta.

Riscaldate il forno a 200°, spennellate nuovamente il pane di olio e latte se si è asciugato e fate cuocere per 25-30 minuti circa.

N.B. I vasi sono da riutilizzare, indi per qui pulite con pazienza rigorosamente a mano (no, la lavastoviglie proprio no) e senza detersivo!

Nostalgia da “lungo viaggio”. Sudafrica II.

Ho cominciato a sentire la mancanza quando ancora non l’avevo lasciata. Questa è stata di sicuro la sensazione più forte dei giorni di safari. Insieme all’emozione di scorgere un leone camminare lento lungo la nostra stessa strada sul far della sera o fermare la propria auto perché un metro più avanti c’è un attraversamento di zebre e subito dopo di elefanti.
Mi sono tornate in mente le parole di Ernest Hemingway, tutta quella letteratura che parla di mal d’Africa come di una ferita intensa che ti porti dentro e ti spinge a tornare, ancora e ancora. Io lo sapevo del continente, dell’Africa, ignoravo però la magia del safari. 

La mia unica esperienza era stata anni fa, una domenica pomeriggio, sottratta ad un viaggio di lavoro, a Nairobi.
Stipata su un pulmino, insieme a un’orda di turisti, avevo potuto vedere giraffe, credo un leone, zebre e scimmie formato “cittadino”. Giusto per dire li ho visto pure io:-). Diciamo che all’interno di un viaggio molto intenso e per nulla turistico si era trattata di una parentesi che mi aveva fatto sorridere ma senza lasciarmi nulla di più.
Niente a che vedere con l’esperienza sudafricana. 
Abbiamo scelto due parchi, uno, il Pilansberg, a poco più di un centinaio di chilometri da Johannesburg, l’altro, l’Addo Elephant Park, nell’Estern Cape, alla fine della Garden Route: entrambi visitabili con bambini visto che sono esenti dal rischio malaria (che invece, ad esempio, c’è al Parco Kruger, il più grande e famoso del Sudafrica).
Non sono quindi in grado di fare paragoni con parchi come il Kruger o riserve come il Masai Mara o il Serengeti, certo è che già questi due mi hanno fatto letteralmente innamorare del genere:-). E Alice con me…
 
Il nostro primo approccio è stato del tutto “improvvisato”, nel senso che con la nostra auto, qualche ora dopo essere atterrati in Sudafrica, ci siamo trovati a percorrere i tracciati nel Pilansberg, muniti di cartina e binocolo. All’inizio è naturale essere presi dall’entusiasmo da avvistamento, ve lo assicuro, soprattutto se ti ritrovi ogni cento metri a dare la precedenza a soggetti che non incontri tutti i giorni.
Zebre.
 
Gnu, impala, kudu e Pumba.
 
Giraffe.
 
Ancora elefanti.
Gnu.
E struzzi, di solito posizionati davanti ad un’auto costretta a pazientare e fermarsi.
E c’è l’eccitazione da “gamedrive” (come qui chiamano i safari), ossia ci si ferma, si scruta tra il bush e si aspetta. Qualcosa vedi.
 
E’ impossibile non sentirsi un po’ bambini, come se all’improvviso tutte quelle immagini e figure che hai sempre visto fra le pagine di un libro o “reali virtuali” nei film si fossero materializzate davanti ai tui occhi. E beh si sono materializzate. Se poi ti assiste la fortuna, può capitare che in ritardo sull’uscita dal parco condividi la strada con leone e leonessa che ti ignorano come nemmeno ci fossi. Oppure di vedere una piccola "volpe" all’alba.
Noi abbiamo passato i primi due giorni, soprattutto Alice&io in preda a un’incontenibile euforia. Tra l’altro nel Pilansberg esistono “nascondigli” dove è possibile lasciare l’auto ed entrare in piattaforme di legno recintate: di solito danno su stagni o pozze di acqua, dove aspettare con pazienza di scorgere gli animali, indovinare le forma delle ninfee al tramonto o osservare gli uccelli. 
 
C’è chi si ferma lì anche a fare dei picnic, importante è il silenzio (e infatti noi ci siamo concessi un rapido passaggio). 
Il “safari” individuale è perfetto come prima esperienza, soprattutto se hai un pupo con te: sei completamente libero di scegliere i tuoi tempi, fermarti e osservare, esprimere a volume elevato (in auto) la soddisfazione da avvistamento e nel mio caso, fare quelle due o trecento foto a uscita:-).
Sperimentare il safari con una guida locale ti offre però l’opportunità di superare il semplice entusiasmo e capire qualcosa in più rispetto a mettere una crocetta su ognuno dei “big five” (ossia elefante, rinoceronte, bufalo, leone e leopardo). 
 
E’ quasi banale a dirsi ma nell’assistere al “vivere” nel bush, nei parchi è impossibile non avvertire intensamente come ogni piccola parte sia strettamente collegata all’altra. E’ una sensazione che cresce a mano a mano che ci passi del tempo, quando cominci a esserne spettatore fin dall’alba.
Una delle nostre guide ci aveva detto che l’alzarsi del sole nel bush è uno spettacolo incredibile, pensavo esagerasse, soprattutto considerato che per farlo la sveglia suona prima delle cinque e devi convincere una pupa a seguirti:-). Ho capito che aveva ragione appena fuori. La bruma ti avvolge a banchi, mentre il sole tenta di vincere la foschia.
Il silenzio è rotto solo dal verso di qualche animale o dall’avvicinarsi inaspettato di una coppia di linci, alla ricerca di qualche carcassa avanzata dal pasto dei leoni.
Dove si aprono spazzi di verde si accumulano gli animali, visioni che paiono appartenere a mondi quasi irreali per quello che solitamente conosciamo. In quel momento ho avvertito una sorta di nostalgia per qualcosa che c’era ma che già mi mancava.
 
Ci sono le orecchie buffe e gli occhi dolci dei kudu o degli impala che compaiono e scompaiono tra gli alberi.
Le code in piedi, ben dritte, di “Pumba” (un facocero): appena la mamma capta un possibile pericolo li vedi allontanarsi veloci, con tutte quelle code alzate come punti esclamativi.
Solo il momento prima ti chiedi come mai non si sia vista nemmeno una giraffa, la strada gira e ce ne sono quattro, cinque che col collo lunghissimo mangiano da un albero.
Intanto la guida ti racconta aspetti incredibili: come posizionarsi per non irritare gli elefanti, l’età di quel cucciolotto appena nato, la gestazione di mesi e mesi degli elefanti, di foglie che passate nelle mani hanno l’effetto di una saponetta, della limitata sopravvivenza del leone se vive in zone con molti rivali, delle zebre, ognuna diversa dall’altra e dell’ippopotamo, capace di uccidere più persone in Africa di ogni altro animale. 
Ho ascoltato incredula della campagna di salvaguardia dei rinocerenti, divenuti negli ultimi anni bersaglio dei bracconieri per il loro corno, venduto a decine di migliaia di euro al chilo a ricchi asiatici che credono di guarire così impotenza e cancro.
Arrivano di solito con gli elicotteri, li avvistano, colpiscono e scappano lasciando centinaia di animali morti ogni anno. La situazione già difficile in Sudafrica, dove grazie alla maggior ricchezza è possibile sviluppare più controlli,  peggiora in altri paesi africani, incapaci di resistere in alcun modo a questi attacchi.
Il risultato? Un animale che si era riusciti a salvare dall’estinzione è di nuovo in pericolo.
 
Poi c’è la cacca dell’elefante e gli uccellini che si accompagnano a giraffe, zebre ed elefanti per mangiare gli insetti che ronzano attorno.
 
Ti può capitare di imbatterti in un intero branco di elefanti, oltre una cinquantina che diligenti, in fila, si muovono verso l’acqua, è quasi una danza, di gioia ed eccitazione, che aumenta a mano a mano che si avvicinano alla pozza. La loro andatura ha una grazia quasi silenziosa che fatica ad accordarsi a tutta prima alla loro mole.
 
Mi ha meravigliato e affascinato rendermi conto di come a poco a poco non siano solo gli animali più nobili ad incantarti ma anche quelli che proprio non “ti aspetti”.  Ad esempio quell’insetto color della pece che ha un nome poco romantico (dung bee, uhm…) per via della mini palletta, fatta di escrimenti, sulla quale rotola e si arrotola cercando di trasportarla. L’elefante passa 18 ore della sua giornata a mangiare e della sua “cacca”, nel bush, non si butta via niente…
In questi momenti è impossibile non avvertire l’equilibrio perfetto che c’è e dovrebbe continuare ad esserci nelle cose: l’alba e il tramonto, l’alternarsi delle piogge, la notte e il giorno, gli animali che trascorrono le ore a difendersi, quelli che cacciano o raccolgono, quelli che ascoltano. Tutto è naturalmente logico. Qualcuno ha scritto o detto che si consuma il rituale della vita e della morte. E’ vero. Sotto un improvviso acquazzone abbiamo indovinato tra l’erba alta le sagome di due leonesse: erano a caccia di una zebra, salvata dalla sua prontezza a correre.
 
Al termine del nostro ultimo safari (con la solita alzataccia all’alba e tè bollente) ci siamo imbattuti in un leone. Era fermo, pareva contemplare il sorgere del sole, in realtà ci ha spiegato Joe, il ranger che ci accompagnava nell’Addo Elephant Park, stava studiando il territorio.
E infatti qualche minuto dopo ha cominciato a muoversi, dall’altro lato della distesa verde si avvicinava un altro leone, inseme ad una leonessa.
Era il segnale: faceva capire al primo che doveva andarsene. In questo gioco di forze noi abbiamo avuto l’opportunità di vedere i leoni passare a qualche centimetrodi distanza dal nostro veicolo.  Il cuore accelera e gli occhi si spalancano increduli a una simile bellezza. E ti meravigli come tutto conviva sullo stesso sfondo di terra rossa: leone, dung bee e cacca di elefante.
 
Voglio vedere gli animali, anche io:-).
Qualche info in più
Il parco Pilansberg: la lonely planet lo definisce un po’ affollato, io adepta della guida ero partita prevenuta, ho dovuto ricredermi
 
Addo National Elephant Park: qui di sicuro è impossibile che non vediate almeno un branco di elefanti (ce ne sono oltre 500), la vegetazione è di un verde incredibile
 
In difesa dei rinoceronti: qui e qui
 
Un lodge childfriendly dove sentirsi speciali e fuori dal mondo (la pupa è stata accolta da un biscotto homemade con tanto di nome “alicioso cioccolatoso”) 
 
 

Bobotie. B-o-b-o-t-i-e. Il destino in un nome

Per me è naturalmente impossibile tornare da un viaggio e non rifare ricette appena conosciute. Capita sempre, a volte diventa una fissazione (e si mangia greco o tirolese per una settimana), mai però un piatto mi ha appassionato come il Bobotie. Sì, nel senso di interesse storico, culturale, oltre che di gusto stesso, perché capire il Bobotie (credo simbolo della cucina sudafricana come il braai o il biltong)  è un po’ come scorrere gli ultimi 300 anni di storia del paese. A qualcuno sembrerà giusto una riedizione speziata della moussaka ellenica, beh sbagliato che in questa sorta di "pie" ci hanno lavorato olandesi, malesi, africani e persino gli inglesi hanno dato qualche suggerimento. Solo a pensarci farei questo piatto un giorno sì e uno no:-)

In Sudafrica l’ho sperimentato la prima volta per caso. Il nome, b-o-b-o-t-i-e, letto in menù mi ha immediatamente incuriosito, dopotutto c’è il destino in un nome, no? E a uno così non si può resistere:-). 

Mi è arrivato una sorta di "pie" dolcemente speziato senza però sfoglia o altro, ma solo una crosticina frittatosa sopra. L’ho aperto e si è aperto un mondo: foglie di limone, curry dolce, coriandolo, peperoncino a pezzetti, uvetta e un sughetto che amalgamava la carne di manzo tritata all’interno. E per chi ama i gusti forti, della chutney per accompagnare.

Da lì in poi è stata una ricerca continua del santo graal, fino ad approdare agli spring rolls (in esterno proprio come gli involtini primavera cinesi) con sorpresa, ossia ripieni di bobotie. Al posto della solita salsina agrodolce "chinese style", chutney (in quel caso era all’albicocca, super!).

 

Fin qui il piatto. Ma poi c’è la storia, ossia come ha avuto inizio il bobotie.

Oltre 300 anni fa le navi olandesi facevano tappa a Cape Town, di ritorno dall’Asia, prima di tornare in Europa. A poco a poco però cominciarono a fermarsi e costruire. E nel fermarsi e costruire lasciavano parte delle spezie trasportate da Java, poi gli schiavi, malesiani, a cucinare per loro. 

Dall’influenza fra i "kerriekerrie" asiatici, la cucina nativa sudafricana e quella dei "bianchi europei" è venuto fuori il piatto simbolo di questo paese. 

Per anni, con la dominazione inglese e poi le leggi dell’apartheid, il bobotie è stato cancellato dai menù  e cucinato di nascosto, a casa o nelle tavole calde malesiane di Città del Capo. 

Oggi, invece è orgogliosamente presente in molti menù e non può mancare nei ristoranti che fanno cucina sudafricana.

E’ come se questo tortino riuscisse a riassumere popoli così diversi, e a rappresentare in maniera unica una nazione multicoloured.
Una dichiarazione di intenti, riuscita, più che una ricetta.

Ok, non è esattamente un piatto da pupi (e infatti lì Alice l’ha proprio ignorato) però è perfetto per il Cucchiaino di mamma&papà e beh, con il bobotie a modo mio (senza peri, peri o come diciamo noi piccante), si può raccontare di una nave che solcava oceani per portare l’"oro speziato"… la mia di pupa, qui a casa, si è convinta all’assaggio:-).

piesse: that’s bobotie visto dal forno, wow!

 

Ingredienti (per tre)

400 gr di carne tritata di vitello e manzo

una manciata di uvetta

1 cucchiaio di marmellata di albicocche

1 cucchiaino di curry dolce

1 chiodo di garofano

1 pizzico di zenzero in polvere

(eventuale coriandolo e curcuma)

1 spicchio di aglio

1 cipollotto

foglie di limone (o alloro, come ho fatto io)

1 uovo

1 bicchiere di latte

1 fetta di pane bianco secco

1/2 cucchiaino di zucchero

1 cucchiaino scarso di sale
olio d’oliva
fette di limone bio

 

 

Procedimento

Bagnate il pane con mezzo bicchiere di latte. In una casseruola fate imbiondire il cipollotto a fette sottili e l’aglio con il curry, lo zenzero, il chiodo di garofano e due o tre foglie di alloro. Aggiungete la carne, mescolate, unite sale, zucchero, marmellata, uvetta. Schiacciate il pane e aggiungete anche questo alla carne. Sbattete l’uovo con due o tre cucchiai di latte (eventualmente potete rendere il tutto più denso con uno o due cucchiai di maizena o semplice farina). Riempite una pirofila da forno con la carne, posizionate ai lati due fettine di limone, coprite con il composto di uovo. Finite con una foglia di alloro sulla superficie e passate in forno a 180° per 30 minuti circa.